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MAGICA IRPINIA : MONTORO a cura di Massimiliano Carullo

6 gennaio 2020  –

 

Montoro: un altro splendido borgo della nostra verde Irpinia che può vantare arte, cultura, bellezze naturali, eccellenze gastronomiche. Aspetti che si intrecciano, si sovrappongono, si fondono, a delineare la storia di un Comune che affonda le sue radici in un remoto passato, cui tenterò di dare respiro in un modo affatto originale. Ossia attraverso il significato dei toponimi delle quindici frazioni in cui il borgo si divide. Prima di iniziare, tuttavia, mi corre l’obbligo di informare il lettore che, a partire dal 1829, il paese restò diviso nei due Comuni di Montoro Inferiore e Montoro Superiore, poi riunitisi, in virtù di un referendum popolare, il 3 dicembre del 2013.

Antichissime -come già detto- sono le origini di Montoro, molto probabilmente legate ad un’emigrazione di Picentini, che, sconfitti dai Romani nel 485 a.C., si stabilirono in queste contrade, sovrapponendosi alla popolazione indigena degli Oschi e a quella sopraggiunta degli Irpini. Riunite in una lega, le genti sannitiche si opposero alla potenza di Roma, contro cui combatterono fieramente tra il IV e il III secolo a.C., costringendo i Romani, nel 321, all’umiliazione delle Forche Caudine. E proprio a Montoro, nel 321, sostarono i Romani, quando i due consoli Tito Vetruvio e Spurio Postumico ebbero l’ordine di marciare in Campania per assalire il Sannio. Lo attesta il ritrovamento di oltre un quintale di monete romane di bronzo, rinvenute nel 1864 in località Retomuro. Poiché le monete appartengono tutte allo stesso periodo, si è ipotizzato che esse dovettero essere la cassa di una legione romana che, quando vide prossima la sconfitta, onde evitare che il denaro cadesse nelle mani del nemico, decise di occultarlo. Ecco allora la necessità di seppellire le casse in un luogo “rialzato” ma osservabile per poi recuperarle in seguito (ciò che, evidentemente, non avvenne morendo i Romani, anche in quella gola di Retomuro, con cruenta strage). E, secondo alcuni storici, il toponimo “Montoro” deriverebbe appunto da Mons (monte) e Torus (rialzo), ossia un monte (o una collina) da cui si poteva osservare e sorvegliare.

La terza guerra sannitica decretò la superiorità dei Romani, che, sconfitti nel 293 a.C. definitivamente i Sanniti ad Aquilonia (che la tradizione identifica con la moderna Lacedonia), si impossessarono di tutti i territori del Centro-Sud. La presenza romana nella zona del Montorese è testimoniata non solo dal ritrovamento di vestigia di una necropoli, di tombe preromane, di una villa rustica romana di età repubblicana, dell’acquedotto Claudio progettato dall’architetto romano Cocceio, ma anche dai toponimi di alcune frazioni di Montoro: Aterrana, che deriverebbe dal termine terra preceduto dall’alfa privativa, a significare, quindi, senza terreni (infatti, tale contrada è quasi priva di territori coltivabili); Preturo, che deriverebbe da Pretor perché vi risiedette l’autorità pretoriale (ma anche perché edificato sulla pietra dura del monte della Laura); Torchiati, che verrebbe da Torquates, ossia dai militi di Tito Manlio Torquato ivi stabilitisi (ma, anche, da certi colombi selvatici, detti volgarmente torchiari, che lì si annidavano, o, ancora, dalla sua posizione alle falde del Monte Incoronata, da cui è come torchiato, cioè oppresso).

Caduto l’Impero romano, il luogo, che si era ridotto a mero territorio di transumanza di pastori e di scorrerie barbariche, nel VI secolo fu teatro di sanguinosi scontri tra Goti e Bizantini in quella località chiamata platea pendula (cioè piazza grande, attuale Piazza di Pandola) dai Greci, che fissarono il loro accampamento nel sito ancora oggi denominato Campo dei Greci (laddove i Goti si fermarono nell’attuale territorio di San Severino).

Ma è ai Longobardi che va ricondotta la fondazione, non più tardi del IX secolo, dell’antico borgo medioevale. Innumerevoli, nei cognomi del territorio montorese (Lombardi, Longobardi, Barbato, Barbarisi, Sica, Castaldo) e nei luoghi legati alle riunioni (Sala di Torchiati e di San Felice), le tracce della loro presenza. Come nell’iconografia o nei luoghi di culto dedicati a San Michele Arcangelo, l’angelo che difende con la spada in pugno la fede di Dio contro le orde di Satana e nel quale i Longobardi, convertitisi al Cristianesimo, riconobbero le virtù di Odino, dio della guerra, guida verso l’aldilà e protettore degli eroi e dei guerrieri.  A testimoniare tale culto è l’antichissima Grotta dell’Angelo, una cappella votiva elevata sulla vetta del Monte Michele o Angelo (o, anche, del Toro). Cinquecento scalini, percorso di espiazione e devozione, conducono ad un antro naturale, in cui, tra stalattiti e stalagmiti, è incastonata una delicata statua di San Michele Arcangelo su uno sfondo di pitture rupestri di epoca bizantina. Al pellegrino che giunga in questo luogo, in cui la fede si manifesta senza orpelli, nella sua naturale semplicità e nella sua genuina schiettezza, viene chiesto, al fine di espiare i propri peccati, di compiere per tre volte il giro della grotta e, alfine, suonare la campanella.

Di epoca longobarda è anche il Santuario dell’Incoronata che, dal Monte Michele, domina, maestoso ed imponente, l’intero Montorese, stagliando, contro l’azzurro del cielo, il candido profilo esaltato dal verde cupo ed intenso del bosco. L’incanto del luogo sostiene e alimenta la devozione dei fedeli, che prende corpo dinanzi alla morbida grazia della tela della Vergine Incoronata, che, inquadrata da finissimi marmi policromi, corteggiata da artistici cherubini e stilizzata da ornati e colonne, evoca, nel cromatismo di azzurro e di lacche porporine sull’oro degli sfondi, lo sfolgorio prezioso delle icone delle grandi basiliche. Dinanzi, sulla bella balaustra, lam­pade di argento rimangono sempre accese a indicare la costante fede dei popoli.

Ai luoghi di culto fa da contraltare il Castello longobardo che, eretto intorno all’anno Mille sul colle più alto, faceva parte dell’antica linea difensiva dei castelli medioevali. Infatti, era in asse, visivo e altimetrico, con il castello di Mercato San Severino e, tramite segnali, con il castello di Solofra. Ai piedi del castello, di cui oggi restano solo una torre quadrangolare, una porzione centrale del corpo di fabbrica ed un’ulteriore torre quadrangolare più piccola e isolata, divenuta colombaia, si sviluppò il borgo medioevale, dalle tipiche abitazioni con portali in pietra, cortiletti ed archi, scalinate e vicoletti, nucleo originario dell’attuale frazione Borgo. Ove l’incanto del panorama, che sembra quasi sospeso nella tranquilla limpidezza dell’aria, rigenera il cuore e lo spirito.

Ma il sogno di una vita in cui salute e bellezza si intrecciano è racchiuso anche nei toponimi di altre frazioni del borgo: così se Misciano deriverebbe da mi sano per le acque limpidissime e salubri di una sorgiva sita nei pressi, Banzano starebbe per ben sano, in virtù della salubrità dell’aria, delle limpide acque, del vino squisito e di pregio. Da tali frazioni un esteso orizzonte lascia godere l’incantevole sottostante conca montorese, vero tappeto miniato dalla diversità di coltura della fertile campagna. E proprio l’ubertosità del terreno, unito alla ricchezza delle sorgenti e al clima mite, avrebbe deciso, secondo i più, il toponimo del paese: Montoro da Monte d’oro, a sua volta, da Mons aureus. Come avrebbe deciso i tesori enogastronomici, unici al mondo, di queste terre. Primo fra tutti la celeberrima Cipolla Ramata, dal dolce profumo che si riflette nei riverberi color rame della sfoglia esterna. E, poi, il Carciofo di Preturo, la Patata di Banzano, la Castagna di Aterrana, la Ciliegia della fascia pedemontana.

Alla concessione di Carlo II d’Angiò di istituire un piccolo mercato va fatto risalire il toponimo del rione Mercatello, sito nei pressi della frazione Borgo. Come al periodo angioino risalirebbe la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, che, insieme con il Campanile in travertino del XVIII secolo e l’Arciconfraternita del Santissimo Nome di Dio, dalla pregevole scala di accesso a curve concentriche forse opera del Vanvitelli, forma uno dei più bei trittici della Campania.

Al periodo aragonese-spagnolo è da ascrivere, tra l’altro, l’impianto urbanistico della frazione Aterrana, il cuore più antico di Montoro, che conserva intatto il fascino di originaria struttura di insediamento contadino, con la bellissima edilizia sacra, i portali gentilizi, i cortili con pozzo, le stradine tortuose e lastricate in pietra. Secondo la leggenda, proprio in questi vicoli vivevano le janare, le streghe che da qui si dirigevano verso Benevento.

Ancor più tipico del folklore montorese è il Carnevale, che, con i colorati intrecci e le rumorose zeze, costituisce uno degli spettacoli più antichi della Campania, cui, da qualche anno, si è aggiunta la spettacolarità degli straordinari carri allegorici.

Montoro: una terra in cui la storia incontra la leggenda e il mistero, i tesori della natura si fondono con i gioielli dell’arte, le eccellenze enogastronomiche affondano la loro ricchezza nella tradizione e nella sapienza di un popolo laborioso e cordiale.